C’è uno spettro che s’aggira nei nostri mari oramai da qualche mese, ovvero i rischi connessi con la recente politica dei dazi avviata dagli USA con un criterio protezionistico e il loro potenziale impatto sui traffici marittimi e sui loro operatori.
Anche in questo settore, a dire il vero, si è avuta una prima fase di minacce “ad alzo zero”, in cui i più pessimisti tra gli armatori paventavano dazi da un milione di dollari per ogni ingresso in un porto statunitense di una nave gestita da un operatore cinese, di un milione e mezzo di dollari se la nave è costruita in Cina e ancora di un milione se la nave è gestita da un operatore che ha in ordine navi nei cantieri cinesi. Dazi pesantissimi con effetti drammatici sul trasporto marittimo mondiale ma anche sul naviglio controllato dall’industria armatoriale italiana che, in base a recenti statistiche, conta attualmente il 17 % della flotta costruita in cantieri cinesi e, quel che più preoccupa in prospettiva, ben l’85 % di nuovi ordini affidati ad aziende del Dragone.
Le varie associazioni di categoria del nostro Paese si erano subito allarmate: da Confitarma ad Assarmatori le preoccupazioni diffuse sono state subito quelle di un ulteriore carico fiscale gravante sul trasporto marittimo con una duplice conseguenza: dirottare i traffici su rotte più profittevoli e quindi ridurre il numero di porti scalati negli Usa; incrementare il costo del trasporto della merce con conseguente aumento del prezzo pagato dal consumatore finale.
Insomma, un effetto complessivamente negativo non solo per il commercio mondiale (e quindi in termini di mancata crescita del Pil), ma soprattutto un’ulteriore spinta inflazionistica a tutto danno del contribuente americano.
Dopo un mese di polemiche e preoccupazioni, ecco che arriva l’annuncio del provvedimento da parte dello U.S. Trade Representative (ovvero l’ufficio della Casa Bianca chiamato a studiare misure di contrasto al dominio cinese nell’industria marittima) che contiene un pacchetto di dazi distinti a seconda delle diverse tipologie di naviglio e con la previsione di un aumento graduale in un arco temporale che parte da ottobre 2025 e arriva ad aprile 2028.
Da notare che il competente Ufficio ha elaborato una semplice proposta e che ora l’amministrazione Trump, dopo una serie di confronti tecnici, dovrà decidere se formalizzarla, cambiarla oppure non attuarla per nulla.
Cosa prevede questo pacchetto?
La prima misura colpirà le navi di operatori o armatori cinesi che scalino porti americani e che da metà ottobre (ripetiamo, solo se la decisione verrà formalizzata!) per ogni scalo e fino a cinque in un anno pagheranno un dazio di 50 dollari per tonnellata netta (che si ottiene sottraendo alla tonnellata lorda le aree di servizio della nave). Tale dazio salirà nell’aprile 2028 a 140 dollari per tonnellata netta.
La seconda misura comprende gli operatori (esclusi quelli facenti capo a cittadini statunitensi per almeno il 75 % del capitale) di navi costruite in Cina. Qui il dazio viene stabilito nella misura più alta tra la cifra di 18 dollari per tonnellata netta o 120 dollari per container scaricato. Si sale sino ad aprile 2028 arrivando a 33 dollari per tonnellata netta o 250 dollari per container scaricato. C’è la possibilità di una sospensione massima per tre anni del dazio se l’armatore ordina e prende in consegna una nave costruita negli Stati Uniti di stazza netta equivalente o superiore a quella colpita dal dazio.
Senza entrare in ulteriori dettagli tecnici in merito ad altre eccezioni previste, passiamo alla terza misura relativa alle car carrier e ro-ro costruite in Cina. Qui il dazio è di 150 dollari per Car Equivalenti Unit (Ceu), non salirà e potrà essere sospeso con le medesime modalità previste per le portacontainer.
Infine, la quarta misura concerne alcune restrizioni all’export di Gnl che, a partire dall’aprile 2028, dovrà essere operato per l’1 % (rispetto a quanto esportato l’anno prima) con navi battenti bandiera Usa e gestite da soggetti americani. In quest’ultimo comparto la volontà è di crescere progressivamente con gasiere costruite negli Usa che nel 2047 dovranno coprire il 15 % dell’export totale. Infine, l’USTR chiude la sua analisi raccomandando la valutazione di ulteriori dazi da imporre su prodotti cinesi (eventualmente in aggiunta a quelli derivanti da altri Uffici dell’amministrazione Trump) funzionali al trasporto marittimo quali gru ship-to-shore, container e rimorchi.
Che dire? Il pacchetto appare piuttosto articolato e graduato con la chiara finalità di contenere l’indubbia influenza cinese sui mari. Raggiungerà l’obiettivo? Difficile dirlo al momento attuale. Infatti, se risulta scontata l’immediata reazione di Pechino che “condanna con fermezza” l’ultima stretta Usa sui settori marittimo, logistico e cantieristico cinesi assicurando che “monitorerà con attenzione la situazione e adotterà tutte le misure necessarie per salvaguardare i propri diritti ed interessi”, ciò che importa davvero capire è come reagiranno i maggiori operatori del mercato armatoriale e qui le strade si diversificano.
Se infatti Msc ha appena confermato piena fiducia alla cantieristica cinese ordinando alla Hengli Heavy Industry ulteriori sei navi portacontainer “dual fuel” (alimentate a Gnl) da 22.000 Teu di portata (che si vanno ad aggiungere ai più recenti ordini di dieci navi da 21.000 teu e dieci da 24.000 teu) e nelle parole dell’amministratore delegato Soren Toft sembra prevedere unicamente un incremento dei costi di trasporto con un’inevitabile aggravio del prezzo finale del bene a carico del consumatore americano, ben diversa è la strategia ipotizzata ad esempio da CMA CGM Group, secondo gruppo armatoriale al mondo. Il suo presidente e Ceo Rodolphe Saadé ha infatti appena annunciato un investimento di 20 miliardi di dollari per contribuire all’economia marittima Usa, con un forte sviluppo nella costruzione di nuove navi da parte della compagnia (controllata dalla holding del gruppo Cma Cgm) American President Lines (Apl), battente bandiera americana. Anche in questo caso l’obiettivo è chiaro, ovvero rispondere tempestivamente alle politiche protezionistiche degli USA, investendo e creando nuovi posti di lavoro.
E gli operatori europei ed italiani che faranno? Al momento non risultano particolari indicazioni operative, l’unico dato certo sono le preoccupazioni di un possibile calo dell’export verso il mercato americano con indubbi effetti negativi anche per l’economia della nostra regione, che trova in quel mercato una delle sue destinazioni in forte espansione negli ultimi anni. (m.z.)