Banche e crisi

Dopo il collasso di Lehmann Brothers nel 2008 ci avevano detto di aver imparato la lezione: il sistema sarebbe stato più regolato, le autorità monetarie avrebbero imposto quella disciplina che il mercato non era in grado di autoimporsi. È durato lo spazio di un mattino. Dalla Presidenza di Obama in poi la deregulation ha ripreso a galoppare. Per evitare il disastro di un’altra Lehmann Brothers, in USA portarono i tassi d’interesse a zero e tali sono rimasti per più di un decennio. In Europa, dopo le crisi della Grecia e di Cipro, la celebre parola d’ordine di Draghi whatever it takes ha avuto gli stessi effetti: creare una bolla finanziaria che, unita alla bolla delle criptovalute (a proposito di risparmio energetico), ha portato le banche a riempirsi di titoli del debito pubblico (4,4 trilioni di dollari in pancia alle banche USA a fine 2022!). Quando la pandemia ha fatto schizzare in alto l’indebitamento degli stati e l’inflazione è ripartita, le banche centrali hanno fatto la virata di alzare bruscamente i tassi. Il valore degli asset contenuti nelle banche è crollato. Molte sono sopravvissute, altre no, con un costo spaventoso per la finanza pubblica.

Non c’è verso, la logica della finanziarizzazione dell’economia, non può portare altro che a una successione di crisi, come aveva previsto Minsky nel lontano 1986 (Global Consequences of Financial Deregulation, Washington University, Working Paper no. 96, St. Louis). Inascoltato, perché allora il pensiero mainstream era quello dell‘era Reagan-Thatcher.

La ricchezza che viene bruciata durante queste crisi, si dice, danneggia solo i ricconi, alla povera gente che male le fa, poveri erano e poveri restano. Un momento. Quella è ricchezza che non viene solo dalla carta, quelli sono anche profitti accumulati con il lavoro della gente, nelle industrie, nei servizi. Quella è anche ricchezza accumulata risparmiando sul costo del lavoro, reddito sottratto allo stagista, al co.co.co., all’interinale, al lavoratore degli appalti che per cinque euro all’ora ti fa le saldature nei cantieri navali. Quelle sono risorse sottratte all’investimento e giocate alla roulette della finanza “creativa”, come i 500 milioni di euro bruciati ad aziende delle nostre parti, che si vantano d’essere “un’eccellenza”. E lo sono.

Proprio in questi momenti, al di là dei tremori per i nostri poveri risparmi, tenuti lì in caso di disgrazia, si dovrebbe riflettere sul fatto che questo paese non può continuare a rendere sempre più flessibile, precario, instabile il lavoro. Non può continuare a sprecare talenti, a vederli andarsene all’estero. Non può – lo vediamo in questi giorni dalle inchieste della magistratura sulla logistica – vivere sulle spalle di condizioni di lavoro indegne di un paese civile e con un’evasione fiscale da far paura.

Come può continuare un Paese ad avere più del 90% delle imprese sotto i 10 dipendenti quando per l’innovazione non solo digitale ci vogliono capitali consistenti, da investire in ricerca e sviluppo?[1] Cosa succederebbe della nostra metalmeccanica se non fossimo i subfornitori dell’industria dell’auto tedesca? Subfornitori perché ormai le automobili, dopo la breve parentesi di Marchionne, ormai le facciamo fare ai francesi o ad altri.

Ma l’Italia – ci dicono – dispone di un patrimonio ben maggiore di quello industriale, il patrimonio culturale, artistico, monumentale, editoriale. Già, dove i compensi medi – quando ci sono, perché quello è il regno del lavoro gratuito – sono vergognosi.[2] Per un tempo determinato può capitare che istituzioni private di grande prestigio, il cui logo svetta sulle grandi barche da regata, il cui nome da solo evoca nel mondo luxury e coolness, paghi 5 euro l’ora gli assistenti di sala. Requisiti richiesti: conoscenza di due lingue straniere.

Quando si parla di queste cose in certi ambienti si leva sempre un coro: formazione, bisogna fare più formazione! Certo, ma forse sarebbe il caso di suggerire che sui banchi di scuola ritornino anche un po’ di imprenditori e di manager. (s.b.)

 

 

[1] “Nel 2019 in Italia erano attive quasi 4,4 milioni di imprese non agricole, con 17,4 milioni di addetti. Oltre il 60% delle imprese aveva al più un solo addetto (in genere ditte individuali con il titolare lavoratore indipendente), e un ulteriore terzo della popolazione erano microimprese tra i 2 e i 9 addetti; questi due segmenti insieme occupavano circa 7,5 milioni di addetti. Le piccole imprese, tra i 10 e i 49 addetti erano quasi 200 mila e quelle medie e grandi 28mila, cioè meno dello 0,7%: queste ultime rappresentavano però più di un terzo dell’occupazione e oltre la metà del valore aggiunto prodotto.” (ISTAT, Rapporto sulle imprese 2021).

[2] Fondazione Brodolini, Dietro le quinte. Indagine sul lavoro autonomo nell’audiovisivo e nell’editoria libraria, a cura di S. Bologna e A. Soru, Roma, 2022.

 

Foto di copertina di Jose Conejo Saenz da Pixabay