Dai porti, punto di incontro tra i popoli, si può favorire la pace

La chiamano tempesta perfetta, ma è solo un eufemismo che stempera il termine nudo e crudo di crisi. Cambiamento climatico, pandemia, conflitto geopolitico tra monocentrismo e policentrismo, capitalismo finanziario ne sono gli elementi di base, che trovano un punto di sintesi dirompente nel conflitto russo-ucraino. Un conflitto che nell’Occidente ha riportato alla ribalta il primato geopolitico sulla economia, creando un vortice ritorsivo che lungi dai valori della democrazia, sta trascinando l’Europa verso il caos. Giorni fa, Josep Borrell, Commissario per la Sicurezza e gli Affari Esteri della UE, all’Accademia Diplomatica Europea, ne ha dato una sua inquietante interpretazione, servendosi della metafora giardino-giungla per paragonare l’Europa a un giardino immerso in un mondo costituito, per la maggior parte, di giungla invasiva, che i muri non riescono a bloccare, concludendo: “i giardinieri devono andare nella giungla. Gli europei devono essere molto più coinvolti con il resto del mondo. Altrimenti il resto del mondo ci invaderà, in modi e mezzi diversi”. Questa metafora, che ha sollevato un’enorme ondata di indignazione “nel resto del mondo”, esprime efficacemente la mentalità poco rassicurante sul futuro, di un decisore europeo di spicco. Il rinculo delle azioni di cosiddetto giardinaggio attivate finora dalla Nato, sta colpendo violentemente la vita della gente, lacerando l’economia reale, quella che dà di che vivere ai territori italiani ed europei. Il percorso intrapreso è opposto alla lezione storica appresa dalle generazioni europee più anziane, che nel sangue di decine di milioni di persone, ha insegnato che la prosperità e la distribuzione della ricchezza (occupazione, salari e condizioni di vita e di lavoro dignitose per tutti) si costruiscono ergendo ponti e non muri, con gli scambi dialoganti e non coercitivi, con la pace.

La guerra nelle sue più recenti versioni, dopo Vietnam, Corea, Afghanistan, Iraq e Siria, ha affinato le armi delle sanzioni, dirette e secondarie, rese possibili dall’uso del dollaro come moneta di scambio internazionale. Un modo per uccidere senza sventrare i corpi, depurando la scena dal sangue. L’Occidente dei papaveri, per citare una metafora novecentesca, impaurito esercita così la sua volontà di imporsi su un popolo, miscelando i nuovi metodi bellici con la tradizione delle armi convenzionali e dei finanziamenti a gruppi di opposizione locali, come hanno insegnato i padri colonialisti. Tutto questo è molto distante dallo spirito democratico occidentale retoricamente richiamato nei proclami, perché il presupposto della democrazia è il primato assoluto della parola e del negoziato.

Il tragico risvolto delle sanzioni sono purtroppo milioni di morti in tutto il mondo, procurati agendo chirurgicamente sull’elemento primario della vita stessa, l’interdipendenza, che sul piano economico è anche la chiave del benessere e della felicità dei popoli, quando fondata sui principi della reciprocità e della cooperazione.

L’incedere della muscolarità che dal 2014 fomenta l’Ucraina, tra i principali esportatori mondiali di grano, contro la Russia, tra i principali esportatori mondiali di grano, fertilizzanti, gas e altre materie prime critiche, ha inevitabilmente prodotto una miscela esplosiva di sangue e sanzioni, che proprio in Occidente sta dando i suoi peggiori frutti. Le attività di migliaia di imprese, già provate duramente dalla pandemia, sono state falcidiate, e molte altre fanno fatica a sopravvivere, mentre le speculazioni senza controllo dei mercati finanziari fanno impennare alle stelle il costo dell’energia e delle altre materie prime. Risultato: le lancette per bloccare il surriscaldamento del pianeta e quelle del potere d’acquisto delle famiglie sono state portate vertiginosamente indietro, trascinate da un violento processo inflattivo che ormai in Europa viaggia alla media del 10%.

In tale contesto, secondo il Fondo Monetario Internazionale, un terzo dell’economia mondiale dovrà affrontare almeno due trimestri consecutivi di decrescita cancellando 4.000 miliardi di dollari di attività, che in termini concreti si traduce in chiusura di aziende, disoccupazione, aumento della povertà. La Banca Mondiale ha stimato che ogni aumento percentuale del prezzo del cibo spinge 10 milioni di persone nella povertà. Anche l’Unctad prevede che il costo della vita entro l’anno può trascinare milioni di persone in tutto il mondo nella fame e nella povertà. La sua chiave di lettura attribuisce parte della responsabilità dei prezzi record di cibo ed energia ai costi commerciali del trasporto marittimo. Un suo recente studio sottolinea che i costi logistici hanno rappresentato almeno la metà dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari ed esprime forte preoccupazione ora che anche il gas naturale sta subendo lo stesso destino, con le navi che si sostituiscono ai tubi, a causa dei cambiamenti geopolitici che sopraffanno la logistica commerciale.

Unctad ha anche individuato 5 azioni chiave: cessazione delle restrizioni commerciali globali da parte dei fornitori; gestione della domanda da parte di tutti i governi del mondo per evitare la corsa alle materie prime; facilitare l’export dei fertilizzanti per assicurare i raccolti dell’anno prossimo; promuovere catene di approvvigionamento alimentare regionali; mettere in campo soluzioni multilaterali e di sistema a lungo termine. Peccato che tutte queste sagge azioni per poter essere attuate richiederebbero contesti di pace e di cooperazione tra Stati. Dunque?

Dunque, occorrerebbe cambiare le prassi dei comportamenti sociali ed economici, per disarmare le campagne propagandistiche che stanno soffocando l’intelligenza laica e l’intraprendenza costruttiva.  Un esempio già esiste in nuce. È costituito dai porti commerciali, grumi di cooperazione attiva e di pace, che trovano sintesi nelle regole condivise dell’interesse generale, e coniugano insieme coesistenza delle differenze e delle specializzazioni, inventiva e creatività. Nei porti il cambiamento è il motore delle innovazioni e delle nuove opportunità.  Esposti ai venti, al mare agitato delle tempeste, ai cambiamenti dirompenti della tecnica e della tecnologia, ai cambiamenti dei traffici e delle navi, agli arrivi e alle partenze sono una delle più grandi metafore di pace e di cooperazione territoriale, regionale e internazionale. Qui l’interdipendenza della vita umana da tutto il resto la si può leggere nelle sue mille sfaccettature. E allora non c’è da meravigliarsi se i portuali si rifiutano di movimentare merci belliche destinate ai luoghi di guerra per massacrare le vite altrui. I porti sanno che la guerra è morte di sé stessi prima ancora di quella di un qualsiasi nemico di turno. Da questo patrimonio di coscienza si può partire per costruire, chiedere e praticare la pace tra i popoli. L’alternativa è restare a guardare, ma continuando così, che fine faranno i traffici portuali, gli sviluppi pianificati, l’economia dei territori? Ecco perché i porti non possono non esortare alla pace. (Giovanna Visco)

 

Foto di copertina di Arek Socha da Pixabay