Il lavoro nei porti

“La normativa non sta cambiando, ma il rischio è proprio quello che possa cambiare” è quanto dichiara Franco Mariani sollecitato sulla situazione dei porti italiani, alla luce delle trasformazioni e delle spinte di cui sono oggetto e le cui onde lunghe arrivano periodicamente fino in Parlamento.
Presidente di ALPT (Agenzia per il Lavoro Portuale del Porto di Trieste) Mariani ha lunga storia politica e professionale di oltre 40 anni nell’ambito dei porti, dell’economia del mare e del lavoro, oggi tra i massimi esperti politici italiani.
“Tutti insieme siamo riusciti con il 199 bis (Decreto Rilancio–L. n.77/2020 ndr) a respingere l’autoproduzione nei porti, e nonostante in quelli di rango internazionale sia stato reso possibile detenere più terminal di una stessa tipologia, si è riusciti ad impedire lo scambio di manodopera, che sai dove inizia ma non sai dove finisce”–spiega con i suoi toni sempre pacati ma incisivi.
Dopo poche battute traspare subito quanto il sentirsi comunità dei porti sia ancora un valore importante, che diventa atto politico di interesse generale e condiviso in momenti critici come questo, in cui il cambiamento si mescola con l’opportunismo affaristico che punta all’en plein dei profitti.
In questo senso, si contestualizzano l’autoproduzione e la fungibilità del personale dipendente tra più terminal, che “sono tentativi che sembrano risolvere problemi particolari. Tutte le iniziative che stanno venendo avanti sono di singoli interessi, che a quel punto diventano erga omnes”.
Ma il Ministero?? gli chiediamo.“Mims (Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità ndr) e Governo non hanno una visione complessiva, e subiscono gli assalti” constata Mariani con un certo rammarico.
In realtà di cosa hanno bisogno i porti?
“Di flessibilità, e ce ne è sempre più bisogno, legata al gigantismo navale e alla concentrazione del traffico in poche compagnie”.
La flessibilità potrebbe essere rischiosa per gli equilibri occupazionali?
“Oggi la flessibilità è abbastanza garantita dall’art.17 (lavoro portuale a chiamata ndr),ma se si permette un uso esasperato dell’art.16 (imprese non concessionarie autorizzate a svolgere operazioni portuali) che fanno gran parte dell’attività che sarebbe in capo all’art.18 (impresa concessionaria terminalista), la flessibilità si traduce nel fare sempre  più pezzi del ciclo operativo, sfruttando quella intrinseca nei doppi turni e nel cambio di mansioni. Risultato: se indebolisci il 17 la situazione nei porti italiani sarà di totale deregolamentazione”.
Con quali conseguenze?
“L’uso di manodopera fuori dalle regole si ripercuote non solo sul lavoratore, ma sulla qualità dei servizi. La stessa automazione, a cui si legano questi fenomeni di sfruttamento, non può essere affrontata in modo strabico, guardando al Nord Europa e poi per i salari
al Nord Africa”.
Il salario si conferma nodo nevralgico …
“Una parte del problema lo si sta affrontando con il CCNL e poi con la contrattazione di 2° livello, che è quella che richiede più flessibilità. Il 17 non fa profitto ma distribuisce salari, e per farlo devono essere sufficienti. Quindi, le attuali tariffe vanno adeguate”

Quali sono gli elementi più importanti per scongiurare precarietà e sfruttamento nei porti?
“Un quadro normativo chiaro e stabile non sottoposto a continue tensioni e il riconoscimento salariale-normativo delle prestazioni lavorative”.
(a cura di Giovanna Visco)