Legislazione europea per la tutela del lavoro nelle catene del valore

Recentemente, alcuni Stati Membri dell’UE hanno emanato delle legislazioni nazionali che stabiliscono un dovere di diligenza delle imprese sull’intera supply chain.  Per esempio, in Germania è appena entrata in vigore la Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz (LKSG), una legge che impone il controllo dell’intera produzione e fornitura di beni e servizi che hanno come destinazione la Germania. Il controllo riguarda principalmente la protezione dell’ambiente, ma anche i diritti umani sul lavoro. La LKSG è destinata ad avere un impatto notevole su tutte le società, comprese quelle italiane, che intrattengono rapporti commerciali con imprese tedesche – come ha scritto Il Sole24Ore del 29 giugno u.s. I partner saranno chiamati, ad esempio, a predisporre report periodici che documentino e garantiscano il rispetto dell’ambiente e dei diritti dei lavoratori nelle proprie attività. Anche in Francia e nei Paesi Bassi troviamo legislazioni simili, che impongono alle società doveri di controllo sulla supply chain, coinvolgendo indirettamente anche imprese straniere.

Da qui nasce la volontà del legislatore europeo di armonizzare la materia, al fine di creare condizioni di parità tra le imprese dell’UE ed evitare distorsioni della concorrenza nel mercato. La prima iniziativa in tal senso ha portato all’emanazione della Direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (Corporate Sustainability Reporting Directive, CSRD), atta ad uniformare e migliorare l’informativa delle imprese europee sulla sostenibilità ambientale e sociale delle proprie operazioni. Il programma di riforme sta proseguendo con due nuove iniziative legislative.

La prima iniziativa è la proposta di Direttiva per un quadro comune europeo di due diligence (Corporate Sustainability Due Diligence Directive, CSDD), presentata dalla Commissione UE a febbraio 2022 e attualmente in fase di prima lettura. La CSDD costituisce un notevole passo avanti rispetto alla CSRD, in quanto non si limita a regolare le modalità di reporting, bensì impone il controllo sul rispetto dei diritti umani da parte delle imprese partner.

La CSDD si applica alle società che superano una determinata soglia dimensionale, calcolata in base al fatturato e, in alcuni casi, al numero di dipendenti. Le società coinvolte sono sia quelle dei Paesi Membri dell’UE, sia quelle di Paesi terzi che operano nell’UE. Nello specifico, la Direttiva fa riferimento a una serie di obblighi inerenti all’impatto negativo sui diritti umani prodotto dall’attività della catena globale del valore. Tra gli esempi di condotte e pratiche che hanno un impatto negativo sui diritti umani, la CSDD cita il lavoro forzato, il lavoro minorile e la violazione delle misure minime di sicurezza sul lavoro.

In particolare, le società avrebbero l’obbligo di identificare, prevenire e mitigare i potenziali impatti negativi sui diritti umani, nonché di porre fine agli impatti negativi effettivi. Il processo di due diligence imposto dalla CSDD riguarda le attività svolte dalla società stessa e dalle sue controllate, ma anche le attività delle società dell’intera catena globale del valore con cui essa intrattiene un rapporto d’affari consolidato.

La proposta di Direttiva fa riferimento al concetto di “catena del valore”, e non, invece, a quello di “catena di approvvigionamento” (supply chain), già diffuso in altri contesti regolativi. Tale scelta implica una notevole ampiezza dell’ambito di applicazione, ritenuta esagerata dal Comitato Economico e Sociale Europeo (CES), che, nel suo parere, ha messo in luce le difficoltà delle imprese nel tracciare le attività a valle e quelle dei partner con cui hanno rapporti indiretti. Per circoscrivere l’ambito di applicazione ai processi che l’impresa è effettivamente in grado di controllare, il CES ha suggerito di limitare l’applicazione della Direttiva al fornitore diretto e all’acquirente diretto.

Il 1° giugno 2023 il Parlamento UE ha adottato, in seduta plenaria, la sua posizione sulla CSDD, il cui testo è stato approvato con 366 voti a favore e 225 contrari. Nei prossimi mesi, il Consiglio dovrà approvare il testo proposto dal Parlamento, oppure proporre, a sua volta, nuovi emendamenti. Vi sono alcune divergenze di opinioni tra le due istituzioni, com’è evidente dalla lettura dell’Orientamento generale del Consiglio pubblicato a novembre 2022. In tale Orientamento, il Consiglio ha proposto la sostituzione della nozione di “catena del valore” con quella di “catena di attività”, che escluderebbe completamente le attività a valle. Il Parlamento, invece, nel testo approvato a giugno, ha insistito sul termine “catena del valore”, ignorando, di fatto, sia l’Orientamento del Consiglio, sia il parere del CES, e sottolineando l’importanza di annoverare tra le attività rilevanti anche quelle connesse alla vendita, alla distribuzione, al trasporto, allo stoccaggio, alla gestione dei rifiuti e alla fornitura di servizi. Nei prossimi mesi dovrà essere trovato un compromesso tra Parlamento e Consiglio su tale punto: l’obiettivo auspicato è quello di trovare un accordo definitivo prima delle prossime elezioni europee, che si terranno dal 6 al 9 giugno 2024.

La seconda iniziativa legislativa da segnalare è la proposta di Regolamento che vieta i prodotti ottenuti con il lavoro forzato sul mercato dell’Unione. La proposta è stata presentata a settembre 2022, ma si trova già ad uno stadio piuttosto avanzato della procedura[1]. Attualmente non esiste una legislazione dell’UE che consenta alle autorità degli Stati Membri di intervenire direttamente per trattenere, sequestrare o ordinare il ritiro di un prodotto che è stato ottenuto attraverso il lavoro forzato. Anche in questo caso, il legislatore mira ad evitare distorsioni della concorrenza, in particolare in seguito all’annuncio da parte di diversi Stati Membri di voler adottare una legislazione per evitare che i prodotti ottenuti con il lavoro forzato finiscano sui loro mercati.

In base al testo della proposta, le autorità dei Paesi Membri avrebbero la facoltà di ritirare dal mercato interno i prodotti ottenuti con il lavoro forzato, attraverso i controlli delle autorità doganali, che dovranno individuare e bloccare alle frontiere i suddetti prodotti. Nello specifico, in caso di sospetto di violazione degli obblighi previsti dal Regolamento, l’autorità competente potrebbe richiedere all’operatore economico di dar conto degli strumenti da esso adottati per prevenire, mitigare o far cessare il lavoro forzato. Il sospetto di violazione potrebbe provenire da diverse fonti di informazione: segnalazioni della società civile, notizie ottenute dai database relativi ai rischi di lavoro forzato in specifiche aree geografiche, report delle imprese sulle proprie operazioni e sulle operazioni dei propri partner, ecc. A tal proposito, si tenga presente che la CSDD e il Regolamento si completerebbero. Infatti, la proposta di Regolamento prevede che, se un operatore economico dimostra di aver svolto un efficace processo di due diligence sulla propria attività e sull’attività dei propri partner, tale da prevenire, porre fine o quantomeno mitigare il rischio di lavoro forzato, l’autorità competente è obbligata a tenerne conto nella propria valutazione. Se, invece, il sospetto di violazione si rivela fondato, l’autorità avvia un’indagine vera e propria, all’esito della quale può ordinare il ritiro del prodotto dal mercato e il suo smaltimento.

Gli ambiti di validità delle due proposte analizzate non si sovrappongono, nonostante si tratti, in entrambi i casi, di misure di hard Law volte a promuovere (anche) la sostenibilità del lavoro nelle catene globali del valore. Infatti, la CSDD riguarda la condotta e gli obblighi di diligenza delle imprese, ma non prevede misure volte specificamente a impedire l’immissione e la messa a disposizione di prodotti ottenuti con il lavoro forzato. Come illustrato, i due testi si integrano a vicenda e danno vita a un unico quadro, che rende imprescindibile per le società verificare periodicamente la serietà dei propri partner. Pertanto, le imprese dovranno strutturare la propria governance in modo da poter far fronte alle eventuali violazioni dei diritti umani sul lavoro nella catena del valore a cui partecipano. (Camilla Faggioni)

[1] La Direttiva e il Regolamento sono due atti giuridici molto differenti. La Direttiva stabilisce un mero obiettivo, dopodiché spetta ai singoli Stati membri definire nel dettaglio il modo in cui conseguirlo, attraverso le legislazioni nazionali. Al contrario, il Regolamento è immediatamente vincolante e deve essere applicato in tutti i suoi elementi.