Mercato e lavoro: ma è solo la formazione l’unico toccasana?

Nella nostra ultima newsletter, concepita come “numero speciale sul lavoro”, avevamo cercato di attirare l’attenzione sul problema della carenza di mano d’opera lungo tutta la catena della logistica (marittimi, portuali, autisti…), avremmo dovuto aggiungere il personale degli aeroporti, delle compagnie aeree e qualche altra categoria professionale (e non avremmo certo esaurito l‘argomento).

Pochi giorni dopo l’uscita della newsletter, questo tema era oggetto di una presa di posizione pubblica dei giovani di Confitarma e questo c’induce a ritornare sull’argomento con una considerazione più generale, che riguarda il dibattito sul mercato del lavoro italiano in quanto tale, così come siamo abituati a sopportarlo – con sempre maggiore fatica – da vent’anni a questa parte.

Se si legge il documento Confitarma si vedrà che le soluzioni proposte per venire a capo di questo problema girano tutte attorno alla formazione e ai problemi, in gran parte burocratici oltre che economici, di accesso alle abilitazioni alla professione. Analogo atteggiamento troviamo nelle proposte che vengono da certi ambienti imprenditoriali dell’autotrasporto (es. abbassare l’età minima per ottenere la patente di guida professionale). Anche qui la formazione assume valore taumaturgico.

È un atteggiamento mentale proprio del nostro ambiente o è un vizio di fondo della cultura del lavoro che si è formata in questi ultimi 30 anni? È senza dubbio un vizio d’origine del discorso, basti pensare ai fiumi di parole che si sono spesi in questi ultimi trent’anni sul mismatch del mercato del lavoro, sullo squilibrio tra domanda e qualità offerta. Un mismatch sempre ricondotto a problemi riguardanti la formazione: alla inadeguatezza universitaria e scolastica rispetto alle esigenze delle imprese; alla media dei laureati italiani inferiore a quella europea; all’aumento dei neet; e via di questo passo. Salvo poi accorgersi che è l’arretratezza tecnologica e la sottocapitalizzazione di molte aziende italiane a non richiedere mano d’opera particolarmente scolarizzata, o che i pochi (relativamente) laureati italiani si riducono ancora di più perché molti se ne vanno all’estero, dove trovano condizioni e riconoscimenti che “in patria” sono loro negati, o per scoprire che la maggioranza di coloro classificati statisticamente neet è formata da gente che sopravvive e s’arrangia lavorando in nero.

Nella logistica sono impiegati lavoratori a bassa specializzazione sottoposti spesso a condizioni che non riconoscono certi diritti elementari, così come accade al bracciantato agricolo al servizio della grande distribuzione e della industria agroalimentare, ma anche a tanti lavori negli esercizi commerciali, nella ristorazione e nell’alberghiero. Per farsi un’idea del mercato del lavoro italiano, può essere di una certa utilità la lettura del “Rapporto Annuale ISTAT 2022”  e del “Rapporto Annuale INPS 2022”, da poco resi pubblici.

Dunque i segnali del disvalore del lavoro in Italia sono molto diffusi e in espansione, rinvenibili in certe condizioni di lavoro insopportabili, in retribuzioni vergognose, legittimate da contratti “pirata” e da contratti “corsari” e causate spesso dai mancati rinnovi di contratti nazionali scaduti da anni; tutti elementi che nulla hanno a che fare con i problemi della formazione, e molto invece con quelli di natura sindacale o di condizioni oggettive in cui si svolge la prestazione della manodopera. A un camionista che a causa dei tempi d’attesa si vede la giornata di lavoro allungata di tre ore non retribuite, non è certo con un corso di formazione che possiamo rendergli la vita meno complicata.

Pensare che la formazione possa risolvere i problemi del rapporto tra capitale e lavoro non è ingenuità, ma profonda demagogia. A un facchino di cooperativa al suo terzo appalto in magazzini diversi, senza uno straccio di anzianità, con ferie mai godute e buste paga dove non sono conteggiate tutte le ore lavorate e un trattamento 7 su 7 con riposo compensativo, non è certo con un corso di formazione che gli rendiamo più accettabile il suo lavoro.

Dice la nota dei giovani di Confitarma: “degli oltre 1.100 marittimi di cui le compagnie di navigazione soffrono la carenza circa 1.000 non sono Ufficiali, ma marittimi abilitati di macchina, operai meccanici, motoristi, ottonai, elettricisti, marinai, fino ad arrivare a una quota molto consistente (oltre 500) di personale di camera (camerieri, garzoni e piccoli di camera) e cucina (cuochi equipaggio e piccoli di cucina)”. Leggendo questa frase, a noi viene spontanea una domanda: il 50% del personale carente è fatto di ruoli non qualificati, quali sarebbero i difetti del sistema formativo responsabili di questa situazione?

Va ricordato inoltre che nel caso in questione, i traghetti, si tratta di un problema collegato alla stagionalità dei contratti, che da sempre – soprattutto in Campania, bacino privilegiato di reclutamento di questa manodopera – viene tamponato con strategie individuali di sopravvivenza che accoppiano all’imbarco una serie di opportunità derivanti dal riconoscimento della disoccupazione ed altro. Ma anche in questo caso c’è da chiedersi cosa c’entra la formazione.

Sorge il sospetto che questa insistenza derivi da un concetto di formazione connaturato a tradizioni storicamente superate. Un tempo dare la possibilità di imparare un mestiere era considerato equivalente a una concessione. Fino a pochi anni fa in alcuni studi professionali ai tirocinanti veniva richiesto un pagamento. Oggi la prestazione dello “stagista” è considerata un’elargizione concessa a costo zero dall’impresa datoriale. In generale la formazione finalizzata al lavoro viene equiparata all’andare a scuola, oppure come necessario lasciapassare per entrare nel mercato del lavoro.

Questa confusione, tra le altre cose, ne ha generato delle altre. Equiparando la formazione a una sorta di elargizione (peraltro spesso a pagamento), si pretende dal soggetto che ne fruisce una specie di “ritorno di gratitudine” sotto forma di maggiore disponibilità alla flessibilità, senza pensare che per quel soggetto l’atto dell’apprendere qualcosa che poi contribuirà a dargli un reddito è già una prestazione, è già lavoro, sforzo produttivo.

Nel contempo, attribuire alla formazione tutte le colpe di un mercato del lavoro che non funziona o, specularmente, affermare che con interventi sul sistema della formazione la maggior parte dei problemi si risolvono, è certo un falso ideologico

Infatti, alla fine del loro grido d’allarme, che cosa chiedono i giovani di Confitarma? Di ottenere delle deroghe per poter imbarcare sui traghetti che fanno cabotaggio personale extracomunitario, cioè personale che costa di meno. Non è molto originale come idea, ma è quanto hanno ottenuto da tempo, senza chiedere, sia l’autotrasporto, sia i magazzini di distribuzione che la cantieristica. L’autotrasporto oggi si trova al punto di prima perché anche la risorsa offerta da autisti extracomunitari si sta esaurendo, mentre la logistica distributiva si trova a fare i conti con una conflittualità endemica (ma qui almeno i veri problemi vengono al pettine).

Ultima considerazione: il sistema formativo tedesco viene spesso portato ad esempio come un buon sistema, soprattutto per la valorizzazione che ha saputo dare agli Istituti tecnici e alla formazione professionale. Ma il problema della mancanza di mano d’opera (Arbeitskräftemangel) è un tema assillante nella logistica, basta leggere le newsletter settimanali dell’Associazione di Logistica, la BVL, e non solo. Per esempio, nella pubblicazione del porto di Amburgo (“Port News”) del 14.07. si legge che quattro su cinque industrie del settore forniture marittime denunciano gravi problemi di scarsità di mano d’opera riferiti in particolare al cambio generazionale.

Quindi ci sembra che puntare il dito sempre sulla formazione sia un modo per distogliere lo sguardo dai problemi delle condizioni di lavoro, dai problemi del salario, dell’orario, dei diritti, dei mancati rinnovi contrattuali e da tutto ciò che questo comporta.

s.b. g.v.

 

Foto di copertina di Joko_Narimo da Pixabay