Non bastano le belle parole

Come i Working Papers della Banca d’Italia, i documenti di un’istituzione così importante come la Cassa Depositi e Prestiti meritano un’attenta lettura, anche quando esprimono opinioni di giovani ricercatori e non impegnano l’Istituto.

Un documento intitolato “Deglobalizzazione e Mar Mediterraneo: quale ruolo per l’Italia” – uscito qualche settimana fa – non poteva non incuriosire chi, come noi operatori marittimi di Trieste, con questi problemi ha ogni giorno a che fare.

(https://www.cdp.it/resources/cms/documents/CDP_Deglobalizzazione_e_Mar_Mediterraneo_quale_ruolo_per_l_Italia.pdf)

La tesi di fondo è: il processo di deglobalizzazione è in atto da almeno quindici anni,  testimoniato dal calo dell’incidenza degli scambi internazionali sul PIL mondiale. Fenomeni di reshoring e friendshoring saranno sempre più frequenti e potranno investire i paesi della sponda sud del Mediterraneo dove il costo del lavoro è inferiore a quello della Cina e ci sono altre condizioni favorevoli, in primo luogo un efficientamento delle infrastrutture portuali. Pertanto, l’Italia deve prepararsi a non perder l’occasione d’intensificare gli scambi con partner geopoliticamente affidabili di quest’area del pianeta e in particolare deve investire in infrastrutture portuali.

Il ragionamento sembrerebbe non fare una grinza, ma quando si entra nel concreto le cose assumono un altro aspetto. Per esempio: quali sono i paesi con maggior peso nei traffici mediterranei e negli scambi? Turchia ed Egitto appartengono a questa categoria. Trieste è il principale punto di arrivo del grande flusso di traffico marittimo a corto raggio proveniente dalla Turchia ormai da trent’anni. Qui le filiere produttive si sono consolidate e strutturate sino nei minimi dettagli. Grande protagonista di questo flusso di traffico è la società danese DFDS. Qui non c’è bisogno né di reshoring né di friendshoring, la straordinaria capacità intermodale del porto di Trieste assicura un costante incremento dei flussi. Potrebbe fare altrettanto Gioia Tauro? C’è da dubitarne, perché è un porto di transhipment dedicato ai traffici oceanici e se perde questa specializzazione muore. Potrebbero farlo Brindisi, Bari, Ancona? Lo stanno già facendo ma sulle direttrici Grecia, Albania, Croazia – per parlare di navigazione a corto raggio. Potrebbe farlo Taranto, dove tra l’altro un imprenditore marittimo-portuale turco ha fatto degli investimenti? Sì, ma non è questo il problema. È da anni che fior di rinomati economisti meridionali sognano che la portualità meridionale possa trainare lo sviluppo del sud come piattaforma logistica naturale. Resterà un sogno, anche se si dovessero potenziare le infrastrutture, costruire nuove banchine, allacciamenti ferroviari e quant’altro. Un approdo non porta sviluppo. Solo se il territorio retrostante si popola di attività produttive, solo una forte massiccia reindustrializzazione, possono dare a un porto d’approdo un ruolo di driver dello sviluppo. E la dimostrazione è data proprio dal caso Tanger Med, più volte citato nello studio. È la densità di iniziative produttive nel retroporto non certo l’aumento di capacità di sbarco/imbarco ad aver fatto di Tanger Med un caso di successo. Oltre al know how e al sistema di relazioni portato dai terminalisti di Amburgo, presenti anche in Italia da almeno trent’anni.

Friendshoring? Industrie della nostra regione che da tempo immemorabile hanno rapporti con l’Egitto ed altri paesi della sponda sud del Mediterraneo lamentano ultimamente una serie di grosse difficoltà negli scambi, emerse proprio nel corso della nostra ultima assemblea, difficoltà derivanti da incertezza sulle regole e da decisioni unilaterali delle autorità di certi paesi che possono tenere ferma la merce nei porti anche per mesi. Forse non è solo il problema della Cina a incidere sulla deglobalizzazione. La guerra in Ucraina e le sanzioni contro la Russia, che si sono sommate a quelle contro l’Iran e la Siria, non favoriscono certo un aumento degli scambi nell’area interessata dai nostri traffici a corto raggio, mentre il ruolo che certi paesi mediterranei svolgono nell’aggiramento delle sanzioni non contribuisce certo alla trasparenza delle informazioni. Ma di questa situazione di grave incertezza sul piano geopolitico i ricercatori CDP sembrano ben consapevoli.

Ma c’è un altro punto del ragionamento dei ricercatori CDP che ci solleva degli interrogativi. Essi parlano di “esaurimento del processo di frammentazione delle catene globali del valore”.  Francamente non riusciamo a capire cosa vuol dire questa frase né la lettura completa del rapporto ci aiuta. Se con questo si vuol dire che le filiere logistiche si sono negli anni strutturate e consolidate sempre di più, giungendo a un alto grado di maturità, siamo d’accordo. Il problema oggi è che a seguito delle note difficoltà create dalla pandemia, a seguito della tensione tra grandi potenze, le catene di approvvigionamento sono andate in tilt ed oggi si assiste a un difficile e certo non breve processo di ristrutturazione e di riorganizzazione delle filiere, che passa anche da fasi di dual sourcing – come testimoniano i materiali che fornisce a getto continuo l’Associazione di logistica tedesca. Ma siamo sempre al solito dilemma: l’Italia ha una propria autonomia logistica, è in grado di fare una propria politica della logistica o è semplicemente un mercato occupato interamente da grandi imprese straniere? Non è certo con un po’ di fondi del PNRR (ora sappiamo che ne useremo meno del previsto) che si cambia il posizionamento strategico di un Paese. Non è evidente che siamo un paese a sovranità limitata proprio in questo settore?

C’è comunque un fattore che i ricercatori dello studio considerano decisivo e tale da permettere il superamento di molte difficoltà: il costo del lavoro. Nella sponda sud del Mediterraneo è inferiore a quello cinese. Evviva!

Noi ci chiediamo: ma è possibile che la base su cui poggiano ragionamenti strategici di una certa ambizione debba essere lo sfruttamento del lavoro? È possibile che il destino dell’Italia debba dipendere da quanto si riesce a sfruttare la gente in giro per il mondo? Intelligenza artificiale, transizione green… belle parole. L’operaio egiziano, l’informatico tunisino, costano meno dei cinesi. Ecco la grande opportunità che l’Italia non deve lasciarsi sfuggire.

E a proposito di lavoro, vogliamo parlare di traffici marittimi, di lungo e corto raggio? Nello spazio mediterraneo dovrebbero valere le medesime regole, ma Turchia ed Egitto, tanto per fare due esempi, non hanno ratificato la Maritime Labour Convention (MLC), voluta fortemente dalla UE per difendere le proprie marinerie dalla deregolamentazione selvaggia. Chi ha qualche conoscenza, seppure superficiale, di shipping, sa quel che vogliamo dire. Pertanto, se CDP vuole assolvere in pieno la sua importante missione di finanziamento d’importati scelte strategiche del nostro paese, forse una maggiore concretezza nei ragionamenti non sarebbe di troppo. (s.b.)