Pensieri di fine anno

È stato un brutto colpo per tutti gli attivisti della questione climatica il vertice Cop28 tenutosi a Dubai. Un brusco, violento risveglio per i ragazzi che credono possibile una transizione energetica. Erano stati derisi, compatiti, da questo mondo che odia la speranza e non sopporta di vederla nascere nelle nuove generazioni. E sarà contento oggi di vederli delusi, pieni di amarezza e forse disperati.

Invece Cop28 non ha sorpreso chi sin dagli Anni 70 si è battuto contro la distruzione dell’ambiente e della salute e aveva capito già nell’ottobre 1973 (riunione dell’OPEC a Vienna e conseguente oil crisis) che l’Occidente non era più padrone del suo destino.

Chi avrebbe immaginato allora che l’Occidente, ben 50 anni dopo (!), sarebbe stato ancora così cieco e ottuso da pensare di poter decidere da solo una transizione energetica senza coinvolgere i paesi produttori di petrolio? In questi anni abbiamo assistito increduli al susseguirsi di obbiettivi per la riduzione del CO2 fissati in maniera del tutto astratta e cervellotica (entro il …. riduzione del tot% delle emissioni di anidride carbonica!). Whishful thinking. E tutto perché ancora l’Occidente non accetta di essere ormai un mondo in declino. Comandano gli altri, non solo perché hanno le risorse, ma perché ormai è la loro domanda di energia che determina il mercato. Sono padroni dell’offerta e della domanda. Come ci ricorda l’interessante sessione di Marine Money, luogo dove si ritrova la finanza dello shipping mondiale.

Nella lucida presentazione di Adam Kent disponibile su you tube (https://www.youtube.com/watch?v=5KN7TyQ6HNs) e intitolata reopening China ci viene ricordato che la Cina è largamente il primo consumatore di energia al mondo, che supera Nordamerica ed Europa, mentre solo vent’anni fa era una frazione del mercato nordamericano ed europeo. Ci ricorda che le sue importazioni di grano, soia, carbone e minerali di ferro hanno eguagliato nel 2023 i picchi del 2016/17. Ci ricorda che le sue importazioni di carbone nel 2023 hanno rappresentato il 75% dell’incremento mondiale. Ma la Cina è anche campione della decarbonizzazione (supera per esempio di gran lunga gli Stati Uniti e tutto il resto del mondo nella produzione di elettricità da energia eolica). Ci ricorda che i cantieri cinesi rappresentano il 48% degli ordini mondiali di navi con motore a doppio combustibile (la Corea del Sud ne rappresenta il 39%). Basterebbero questi pochi dati per capire che qualunque cambio strutturale nel modello di sviluppo attuale deve fare i conti con la Cina. Il mercato mondiale dello shipping, che in termini di volumi è per il 50% costituito dal trasporto di prodotti energetici (LNG in crescita esponenziale), è determinato in gran parte dalla domanda cinese. E se accanto alla Cina ci mettiamo l’India e tutti gli altri paesi che compongono il gruppo dei BRICS, ci rendiamo conto che noi italiani viviamo nella periferia del mondo. Chissà se Trieste riuscirà a cavarsela?

Troppo spesso ci si dimentica che Trieste è un porto energetico. A furia di parlare di container e di Ro-Ro, ci si dimentica che il 64% della merce che passa da Trieste è costituita da petrolio greggio. E se il Presidente D’Agostino va in Azerbaijan a ragionare di pipeline parallele a quella della TAL dedicate a fonti energetiche non fossili, è perché può permetterselo, unico tra i presidenti dei porti italiani. Più l’area del Mar Nero, della Turchia, diventano strategiche per il flusso di prodotti energetici verso l’Europa, più Trieste diventa il punto d’approdo privilegiato sul continente europeo, come abbiamo scritto nella Newsletter precedente, a proposito di Global Gateway.

“Ma questo non produce occupazione, non ‘lascia giù’ niente” – ci possono obbiettare. Certo, se ragioniamo solo in termini di economia materiale e trascuriamo del tutto l’indotto, ma se pensiamo che nel futuro l’immateriale – i dati – produrrà sempre maggiore occupazione (come starebbe in piedi Amazon senza i Big data?), forse il ragionamento cambia.

Non vorremmo che quelli che ridono di noi perché abbiamo “la testa tra le nuvole”, appartenessero alla categoria di coloro che chiudono fabbriche e licenziano gente in tronco (vedi Wärstsila o GKN o tante altre situazioni). I grandi manager che dicono di saper fare i conti “realistici”. Invece a noi piace il pensiero utopico, perché contiene ancora dei valori dentro la sua logica.

Pensiamo a come si è ridotto l’Occidente per aver buttato via come carta straccia i suoi valori fondamentali! La democrazia, tanto per cominciare, quella che tiene conto di tutti, distribuisce le risorse, protegge i deboli, attenua le diseguaglianze. Pensiamo a come è stata ridotta l’Italia, un Paese dove i salari sono diminuiti, dove non si fanno più figli, dove i giovani se ne vanno. Un Paese con una bella, coraggiosa, Costituzione, al cui Articolo 1 si legge ”…una repubblica democratica, fondata sul lavoro”, e poi chiediamoci quanto conta il lavoro in questo Paese, nelle sue scelte strategiche.

L’ordine internazionale stabilito dopo l’esperienza mostruosa della Seconda Guerra Mondiale è ormai in evidente disfacimento. Dalla guerra d’aggressione russa all’Ucraina, ma soprattutto da quello che succede a Gaza, l’ONU appare ormai come una scatola vuota. Si pensi soltanto al Consiglio di Sicurezza, dove siede di diritto un paese guidato da un uomo che altri membri di quel Consiglio considerano un criminale di guerra. Eppure, era nato, l’ONU, da un pensiero utopico, da ragionamenti che ponevano al centro dei valori, che si permettevano di sperare in un’umanità che non si autodistrugge. Il Consiglio di Sicurezza era nato, pragmaticamente, sull’equilibrio del terrore. A dimostrazione che il pensiero utopico non ha “la testa tra le nuvole”, è un pensiero che conosce la natura umana, che sa essere pragmatico. Tanto è vero che si fonda sulla consapevolezza che la natura umana non deve essere lasciata agli istinti. Non esiste un essere senza un “dover essere”. Questo è il senso dei valori, questo è il significato della parola “etica”.

In seguito, il mondo è diventato multipolare, all’ONU negli Anni Sessanta la maggioranza dei seggi si spostava verso i paesi cosiddetti “non allineati” e l’equilibrio sembrava non essere dominato soltanto dal terrore. Poi alcuni di questi paesi, allora di recente indipendenza, si sono fatti la bomba atomica. Un nuovo ordinamento mondiale, un nuovo sistema di sicurezza, non è stato né pensato né tentato e oggi, a cinquant’anni di distanza, ci sentiamo sospesi nel vuoto, impotenti. Ma dobbiamo andare avanti. Consapevoli che i nostri pensieri sono pieni di contraddizioni, ma almeno fermamente convinti che “senza utopia non esisterebbe tensione verso il mutamento”. [1]

Sergio Bologna

 

. [1] Carlo Altini, Il realismo dell’utopia antica e l’utopismo del realismo moderno (https://iris.unimore.it/bitstream/11380/1074035/2/realismo%20politico%20e%20utopia.pdf )

 

Foto di copertina, Paul Cézanne, La montagna di Sainte-Victoire