Quale futuro per Trieste

Il finanziamento pubblico di 245 milioni per la costruzione del Molo VIII, secondo terminal contenitori del porto di Trieste, solleva gli entusiasmi della comunità portuale cittadina. Circa 38 milioni sono destinati però a opere ferroviarie. Se consideriamo l’allungamento del Molo VII sul quale si sono impegnati gli attuali gestori per ottenere il prolungamento della concessione, la capacità offerta dal porto triestino tra qualche anno sarà quasi raddoppiata. Noi abbiamo sempre considerato il Northern Range adriatico come un unico mercato. Se pensiamo alle opere in corso presso i porti di Rijeka e di Koper, nel giro di pochi anni la capacità disponibile in questo Range portuale, che oggi movimenta nel suo insieme – transhipment compreso – meno di quello che movimenta da solo il porto di Genova, ma su mercati esteri emergenti, subirà un incremento notevole.

Il porto di Genova, e il range portuale Nord Tirrenico, non vedono crescere il traffico contenitori in maniera significativa da dieci anni a questa parte; invece, il tasso di crescita del Range Nord Adriatico è tra i più alti del Mediterraneo, ma questo è fisiologico quando si parte da volumi inferiori e, come detto sopra, si servono economie ancora in fase di crescita. Le incognite che si presentano oggi al mondo dell’economia del mare sono impressionanti, foriere di crollo di traffici ma anche di sviluppi inimmaginabili (sul piano delle energie rinnovabili o meno inquinanti, per esempio). Noi siamo d’accordo con chi auspica che Trieste rimanga un porto multipurpose, anzi, meglio, che Trieste non abbandoni la sua tradizione di porto commerciale innervato in un tessuto industriale. Da questo punto di vista la perdita della Wärtsila, una delle poche imprese 4.0. presenti in Italia, ci è parsa un danno che difficilmente potrà essere rimediato (ma che comunque, qualora si dovesse veramente realizzare l’impianto di produzione di carri ferroviari, sarà ridotto). Avremmo preferito anche che dalla sconfitta, dalla perdita di posti di lavoro, si fosse riusciti comunque a ricavare qualcosa di positivo per il territorio, un centro di resistenza e di produzione d’idee di matrice operaia, come è accaduto alla GKN, l’azienda di Campi Bisenzio, dove i lavoratori sono stati messi sul lastrico senza preavviso, come alla Wärtsila. Ma non si può avere tutto.

Siamo convinti però che quando si assiste a un fenomeno così drammatico e apparentemente inarrestabile, come quello della fuga del manifatturiero da un paese come l’Italia (Stellantis docet), quando si assiste alla totale impotenza dello Stato nel fermare questo fenomeno, quando si assiste a una fuga di aziende da un paese dove la flessibilità e la precarizzazione della forza lavoro ha raggiunto livelli altissimi, dove i salari invece di crescere sono diminuiti, dove lo spappolamento dell’azienda in una catena infinita di subappalti provoca continue morti sul lavoro, dove medici fuggono dagli ospedali pubblici e insegnanti dalle scuole, anche la proliferazione d’infrastrutture nei servizi di logistica e trasporto, la crescita come funghi di magazzini per la distribuzione dell’e-commerce, sono una magra consolazione.

In questo quadro preoccupante – al netto dei rischi geopolitici – poiché Trieste da sola non può invertire la tendenza, l’auspicio è che almeno riesca a difendere le competenze e il know how che le ha lasciato il suo glorioso passato nell’economia del mare, dalla cantieristica allo shipping, dalla finanza specializzata all’universo assicurativo, perché almeno nel settore che riguarda trattamento, manipolazione, trasporto delle merci – e tra queste soprattutto quelle energetiche – si crei un sistema sinergico che ne innalzi il valore aggiunto e si crei qualcosa che richiede forza lavoro altamente qualificata, qualcosa che faccia sì che lavoro manuale e lavoro intellettuale non diventino un’indistinta commodity, sostituibile ad libitum. Perché è la risorsa lavoro la maggiore ricchezza che abbiamo. Sono le scuole che la formano e le imprese che la impiegano a garantirne la sopravvivenza. Gettarla al vento sarebbe un crimine. (s.b.)